La primavera ha un odore preciso. È quello dell’asfalto che si scalda sotto i primi raggi decenti di sole, della polvere che si alza dalle scarpe consumate, del sudore misto a deodorante cheap da supermercato. E per me, la primavera ha sempre avuto un suono: Adam’s Song dei Blink-182 nelle cuffie di un walkman che sputava note stanche, mentre con la solita camminata svogliata mi dirigevo verso la sala prove.
Era il 1999, e noi eravamo lì, al confine di un millennio che non ci voleva più bambini ma nemmeno adulti. Giornate lunghe, senza il peso delle notifiche a tirarti giù lo sguardo, senza l’ansia di dover apparire sempre al meglio su una schermata digitale. I telefoni servivano a chiamare, i messaggi costavano una follia, e internet era un concetto talmente primitivo che scaricare una suoneria in WAP sembrava fantascienza. Ci si vedeva davvero, ci si parlava davvero, e ogni accordo strimpellato in una sala prove puzzolente di fumo e umidità era un manifesto di ribellione senza uno scopo preciso.
Eravamo gli ultimi romantici dell’analogico, quelli che si sono visti sparire le videocassette sotto la ghigliottina del DVD, che hanno abbandonato le musicassette per i CD (e poi per gli MP3, con il dubbio perenne su quanti brani ci stessero in 128MB di memoria). Indossavamo Converse che sembravano sempre sporche ma mai fuori posto, e dentro di noi si agitava un’energia assurda: volevamo cambiare il mondo, anche se non sapevamo ancora come.
Oggi mi chiedo se ci siamo riusciti. La risposta mi sembra una risata amara persa nel vento. Siamo stati inghiottiti dal tempo, trasformati in adulti disillusi, prigionieri di uno schermo che ci detta le emozioni in pixel perfetti. I sogni si sono rimpiccioliti, la realtà è diventata una versione patinata e taroccata di quello che ci avevano promesso. La noia, che un tempo ci faceva suonare, scrivere, creare, oggi ci incolla a una timeline infinita di cose che non ci appartengono.
Mi mancano quei giorni, mi mancano le chitarre che vibravano nell’aria, le pizze mangiate senza fretta, il tempo che scivolava via senza l’ossessione di renderlo produttivo. Ma almeno, cazzo, io quelle cose le ho vissute. Ho un archivio di ricordi veri, tangibili, sudati e sporchi.
E voi? Ci pensate mai a quello che eravamo? A come siamo finiti qui? E soprattutto… perché?
Antonio
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